Unificacion Italiana

Páginas: 14 (3432 palabras) Publicado: 9 de octubre de 2012
Pioveva su tutte le langhe, lassú a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedí l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa piú avanti, quandoavessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledí, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento sem’avesse saputo cosí rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgoprofondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei piú brutti. Tobia e i suoi mitrattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole. Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me, aservire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non piú di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore. Non eravamo gli ultimi della nostraparentela e se la facevano tutti abbastanza bene: chi aveva la censa, chi il macello gentile, chi un bel pezzo di terra propria. L’abbiamo poi visto alla sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia, e non uno a piedi da poveretto. Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica,coi soldi che s’erano fatti imprestare da Norina della posta. Nostro padre aveva troppa paura di far debiti, allora. Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d’Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva perso molto di voglia e dicostanza. Noialtri ragazzi lavoravamo sempre come prima, anche se lui ci comandava e ci accudiva meno, ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre piú poca polenta e quasi piú niente robiola. E a Natale non vedemmo piú i fichi secchi e tanto meno i mandarini. Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull’orlo dellaconca. E quando seppe che a Niella ne pagavano l’arbarella un soldo di piú che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassú. Dimodoché diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca, gli occhi o troppo lustri o troppo smorti, mai giusti, in faccia tutta...
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